
M’ero esercitato per giorni nel modulare la voce e farla risultare più bassa di quanto in realtà non fosse. Credevo d’aver avuto un buon risultato ed in effetti fu così.
Mi sedetti al bancone, posai il bastone accanto a me ed il cappello sul banco. Ordinai un whiskey liscio e m’accesi un cubano.
Sentivo la fasciatura sul petto stringere ed a tratti credevo di non respirare, mi chiedevo come avessero potuto così tante donne vivere ogni giorno intrappolate in un bustino.
Accanto a me si sedette una giovane donna dalla pelle diafana, era bionda coi tipici capelli alla maschietto e portava una fascia con due piume nere sul capo. Non era troppo alta ed il fisico longilineo spiccava a malapena fra le frange dell’abito corto nero. Mi sorrise maliziosamente prima di rivolgersi al barista stringendo fra loro le labbra.
Mi pareva che ogni suo movimento racchiudesse sensualità, il modo in cui sedeva. Il modo in cui teneva abbandonata la gamba destra sulla sinistra, anche il modo in cui aveva acconciato i capelli risvegliava in me un istinto profondo e non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
Si portò il bicchiere alla bocca prima di tornare a fissarmi.
«Buonasera.» A stento ebbi il coraggio di salutarla, ripetendomi che non avevo nulla in meno agli uomini che mi circondavano e lei stava davvero guardando me.
«Benny Goodman è decisamente ispirato questa sera, non crede?» continuai.
«Mi trova concorde. Viene qui spesso?»
«No, molto raramente. Viaggio troppo per lavoro.»
«Strano, oggigiorno tutti lavorano in borsa. Lei è diverso.»
«Ed è positivo?»
«Decisamente. La rende interessante. Balla?»
«Volentieri.»
Ballammo il charleston quella notte, ridendo e scambiando sguardi che tagliavano l’aria.
L’altezza aiutava, sebben di poco, la superavo e ciò diminuiva la mia insicurezza.
Il locale aveva luci soffuse e nell’aria risuonava la musica dell’orchestra, quasi circondasse quella danza.
Erano anni che non ballavo, la cosa mi faceva sentire libero e nuovo, come se un’inconsueta speranza si fosse accesa dentro di me. Credevo di poter vivere in quel modo; nel mondo spensierato della notte, nei covi dimenticati dall’autorità, dove la felicità era toccabile.
Sentivo il calore del corpo di Florence sotto le mani, quelle mani affusolate ch’avrei voluto aver più vissute.
Sorrideva, lasciandosi trasportare dalla musica.
Il mio sguardo non poteva staccarsi dal movimento delle frange del suo abito, mi sentivo ipnotizzato, come se il suo corpo avesse un effetto anestetizzante su ogni mio pensiero. Ogni pensiero tranne uno.
Più la guardavo e più desideravo possederla, inquisire la sua pelle fra le dita e sentirla urlare contro il mio orecchio.
I ballerini attorno a noi si lasciavano andare in numeri acrobatici ch’avevo sempre invidiato e dopo anni d’esercizio atto ad irrobustire i muscoli decisi di provare a sorprenderla; cercai ogni stilla del coraggio ch’avevo in corpo mentre sentivo crescere quell’eccitazione che coglie i bambini quando provano per la prima volta qualcosa di nuovo. La sollevai dalla vita sottile facendola passare sopra al mio capo prima di posarla nuovamente sulla pista da ballo.
«Qual è il suo nome?»
«Ezra.» Ammisi d’aver dovuto pensarci
La musica s’interruppe e venne seguita da uno scroscio d’applausi.
Colsi l’occasione e tornammo a sederci, scegliendo un tavolino appartato dove un cameriere provvide a recapitarci gli effetti della signora, cappello, bastone e sigaro. Florence estrasse un bocchino ed una sigaretta dalla borsetta, ed appoggiandosi al tavolino col gomito si sporse nella mia direzione.
«Le spiacerebbe accendermi?» Le labbra, tinte di rosso, sorridevano.
«Mi spiacerebbe non farlo, Miss Florence.» dissi con tono soffocato. «Mi spiacerebbe molto.»
Lei rise e virò il discorso sulla politica od almeno questa fu l’impressione. Ci avvicinammo molto sul divanetto in pelle che circondava il tavolo. Si susseguirono le bevande e trascorsero le ore prima che, dopo l’ennesima risata che mi scosse l’animo, le porgessi la mano, tentennando.
«Venga, è ora di cambiar luogo.»
Scendemmo dal taxi di fronte ad un anonimo edificio di Brooklyn dove lei abitava.
Entrati nell’appartamento, il silenzio opprimeva i timpani. Florence rischiarò la stanza accendendo la lampada del salotto. Mi avvicinai a lei senza emettere una sola parola, le presi semplicemente il viso fra le mani prima d’immergere le mie labbra nelle sue. Erano morbide ed umide e la sua bocca si concedeva lentamente alla mia lingua. La esplorai con la calma di chi non ha nulla ad attenderlo. Scesi con la mano destra lungo la linea della sua schiena, arrivai fino al bacino, quindi risalii repentinamente quando la sentii allontanarsi ed io non ero ancora disposto a lasciarla libera dal mio bacio, non ancora.
Risalii con la mano dietro alla sua nuca, stringendola ancora a me, impedendole di terminare quel momento. Le permisi d’allontanarsi solo quando non riuscii più a respirare; la vidi ridere prima di lasciar che il tessuto dell’abito le carezzasse la pelle nello scivolare sul pavimento.
La spinsi contro al muro mentre con le mani le frugavo il corpo, soffermandomi sui seni nascosti dalla sottoveste bianca; dopodiché presi a scivolarle lungo i fianchi staccando le calze dai propri ganci e chinandomi per sfilarle. Mi fermai ad osservarla inginocchiato dinnanzi a lei; la luce ne colpiva le forme, facendole emergere dal buio che circondava la stanza. Seguivo la linea delle sue gambe con sguardo pieno di desiderio ed istintivamente mi tolsi la giacca, lasciandola cadere.
Con incertezza avvicinai il viso alla sua gamba, prima di baciarla sempre più in alto, fino ad arrivare al suo sesso. La trovai umida e le strappai un gemito mentre con la lingua le stimolavo il Monte di Venere e con le dita entravo
dentro di lei, ma fu allora che Florence parlò.
«Non mi faccia attendere troppo.»
Qualcosa dentro di me si ruppe. Ricordo che dovetti appoggiarmi con la mano per non cadere all’indietro sul pavimento freddo. Trovai la giacca e la raccolsi. Il respiro mi bruciava i polmoni e mi martellava il torace con ritmo pesante. La indossai, deglutendo a fatica mentre ora la fasciatura sul petto sembrava volermi soffocare.
Mi diressi verso la porta e la imboccai. Sentii Florence parlare, ma non capii cosa mi stesse dicendo.
Scesi in strada e mi lascia colpire dal freddo della notte; le strade di Brooklyn erano illuminate a macchia dalla luce dei lampioni.
Camminavo, mentre il rumore del bastone, trascinato, seguiva i miei passi e le nubi del respiro dietro di me mi ricordavano dei demoni.
La mia mente era invasa dalle immagini di Florence e dal pensiero di quanto avrei desiderato portare a termine ciò ch’avevo iniziato. Non so come avessi potuto supporre di superare quella notte. Come avessi potuto credere di darle piacere senza ch’uscisse la mia impossibilità a concluder l’atto. Come avessi potuto pensare di restare di fronte a lei, vestito di tutto punto con le mie bretelle, la mia bella camicia e la cravatta; incapace di svelarle anche un solo centimetro di pelle.
Mi sentivo infranto. Spezzato nel più intimo dell’anima. Il respiro mi si rompeva e mi girava la testa. Mi sentii talmente male da dovermi sedere sull’angolo d’un marciapiede.
Gli occhi mi bruciavano, carichi del dolore che mi pervadeva le membra.
Ero ferito, riuscivo solamente a colpevolizzarmi. Avevo passato anni per prepararmi a quel momento, per questa serata; alla serata in cui avrei finalmente potuto essere la persona che avevo sempre desiderato. Erano passati anni prima che trovassi il coraggio e n’erano passati altrettanti prima che finalmente si presentasse l’occasione.
La serata in cui poter ottenere la mia metamorfosi ed ero riuscito a sprecarla.
Il tempo era ormai scaduto e con la testa china nella cantina ch’avevo affittato appositamente per la serata, mi spogliai.
Il cappello a cloche mi pesava sul capo come un macigno; era d’una tonalità di rosso acceso con tre piccoli fiori sul lato destro. Il vestito bianco a frange appena s’intravedeva sotto al pesante cappotto nero con le piume.
Il ticchettio dei tacchi accompagnava il mio rientro.
Aprii il portone di casa con un pesante sospiro e spalancai gli occhi
vedendo la luce del soggiorno accesa.
«Elsie?»
«Si, caro? Ancora sveglio? Il lavoro finirà per toglierti le energie.»
Camminai fino a raggiungerlo in salotto. Sedeva con un sigaro fra le dita, gli occhiali posati sulla punta del naso ed il giornale stretto fra le mani.
«Non quelle per leggere il giornale, anche se oramai consegneranno quello di oggi. Sei tornata tardi.»
Mi scrutò con gli occhi neri, quasi come sospettasse qualcosa.
«Hai ragione. Io e le amiche del circolo siamo andate a ballare il charleston. Sono anni che non mi porti a ballare. Ho perso il senso del tempo e trovare un taxi per il ritorno s’è rivelato difficile. Scusami se ti ho fatto stare in pensiero.»
Gli lasciai un bacio sulla guancia, prima di tornare in direzione delle scale.
«Vado a dormire, sono stanca.»
Mi tolsi cappotto e cappello lasciandoli sull’attaccapanni, prima di cominciare a salire le scale.
«Elsie, tesoro, una domanda.»
«Dimmi.»
«Sai per caso dove può essere finito il cubano che avevo lasciato sulla mia scrivania?»
«No caro, non ho proprio idea. Buonanotte.»